
La grande protesta popolare che da dodici settimane sfida la riforma della Giustizia proposta dal premier Benjamin Netanyahu è senza precedenti nei quasi 75 anni di vita dello Stato ebraico: forza politica e aggressività verbale delle manifestazioni ripropongono la dirompente energia che ha distinto i conflitti più aspri durante l’intera parabola ultracentenaria del movimento sionista, concludendosi sempre con un vincitore ed uno sconfitto. A rendere drammatico lo scontro è il fatto che, per gli opposti campi, ha in palio qualcosa che vale ancor più della riforma ovvero l’identità stessa della democrazia israeliana.
Da un lato c’è il premier, sostenuto dalla coalizione più a destra mai arrivata alla guida del governo, che si propone di riformare la Giustizia – ed in primo luogo la Corte Suprema – per “sanare gli eccessi” dovuti ad uno “strapotere dei giudici” e dall’altra c’è il fronte della protesta che imputa proprio a questo progetto la “fine dello Stato di diritto” e la “morte della democrazia” a causa della volontà di “sottomettere il potere giudiziario a quello esecutivo e legislativo” con norme come la possibilità per la Knesset (il Parlamento) di respingere con un voto le sentenze della Corte Suprema.