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Luca Micheletti: «A teatro mi faccio in sei. Anzi, in sette»

«Ho imparato tutti i mestieri nella compagnia dei miei» dice il baritono, attore, regista di prosa e d’opera, saggista, traduttore e drammaturgo. Già impegnato fino al 2027…

di Maria Laura Giovagnini

Il primo ricordo del teatro? «Io, a tre anni, che crollavo e mi addormentavo dietro le quinte, su pezzi di stoffa portati dall’attrezzeria. Credo sia così, in modo quasi subliminale, che ho imparato a memoria tanti testi. “Questa è la vita! Conservare il rispetto della gente, signora! Tenere alto il proprio pupo – quale si sia – per modo che tutti gli facciano sempre tanto di cappello…”». Luca Micheletti si lancia nella tirata di Il berretto a sonagli, quella che più lo colpì in quell’infanzia nomade al seguito dei genitori, “I guitti”. Oggi è baritono, attore, regista d’opera e di prosa, saggista, traduttore. E drammaturgo: è stato lui, con Umberto Orsini, a scrivere Le memorie di Ivan Karamazov, uno degli spettacoli più applauditi della stagione. 

Famiglia d’arte

Luca Micheletti (foto Fabio Anselmini).

Magnetico Marcello in La bohème (al Teatro alla Scala fino al 26 marzo), mostrerà presto altri due volti a Firenze: dal 30 aprile al 12 maggio canterà il Don Giovanni di Mozart al Maggio fiorentino, dal 12 al 21 maggio reciterà Il misantropo di Molière alla Pergola. 

Come fa a essere disinvoltamente – ed efficacemente – eclettico?
Venendo da una famiglia d’arte, di quelle che si passavano di padre in figlio usi, costumi, strumenti del mestiere, ho cominciato da piccolo: vedevo fare – e facevo a mia volta – un po’ di tutto, a 360 gradi, su e giù dal palcoscenico. 

“Questione di vita o di morte”

Perché i suoi si chiamarono “I guitti”? Non dà l’idea di qualcosa di rango…
“Guitti” è dichiarato con orgoglio! La nostra tradizione non comincia nel 1975, quando mio padre e mia madre hanno fondato una compagnia “alla moderna”, ma risale a metà Ottocento, quando i nonni dei miei nonni giravano l’Italia con palcoscenici di legno mobili, come nei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Erano una quindicina, si fermavano anche 40 sere, offrendo per 40 sere spettacoli differenti, da La cieca di Sorrento e I figli di nessuno a Victor Hugo e D’Annunzio. Era il teatro più povero, quello degli “scarrozzanti” come li definiva Giovanni Testori, che è andato avanti fino alla Seconda Guerra Mondiale. Per certe fasce della popolazione rappresentava l’unico accesso alla cultura “alta”.

Una storia che meriterebbe un libro. 
In effetti mi accingo a raccogliere i racconti che ancora ci tramandiamo, una “mitologia” da preservare soprattutto ora che mio padre, purtroppo, è mancato.  

La vita girovaga non si sarà conciliata facilmente con la scuola. 
Ero molto assente, in effetti, ma in compenso ho avuto infinite possibilità d’incontro con la gente e con quei particolari esseri umani che sono gli attori, spesso egocentrici e fragili. Li sbirciavo nei camerini, imparavo da loro a truccarmi, uno spasso per un bambino… Però i miei mi richiamavano all’ordine, mi invitavano a non scherzare con questi che parevano giochi: per me il teatro è diventato da subito una questione di vita o di morte. 

Laurea con lode

Luca Micheletti con Freddie De Tommaso nella “Bohème” alla Scala (foto Brescia e Amisano).

Tosto.
Ho imparato la stessa disciplina che era stata impartita a mio padre, al padre di mio padre, al bisnonno… Una disciplina che ha continuato ad accompagnarmi. Non è un caso se sono arrivato a laurearmi (in Scienze del Teatro, con lode, ndr) e a conseguire un dottorato in italianistica, pur lavorando. Come i miei quattro fratelli, sono stato un attore precocissimo.

Mai avuto un sogno che non riguardasse il palco?
Alla fine del liceo mi piaceva la chimica… Però è durata poco (ride). 

Sostituita da cosa?
Non ero ancora maggiorenne quando ho iniziato con la regia in Le furberie di Scapino di Molière: avevo il ruolo di Scapino, e mio padre era Geronte. Dirigere papà non era banale, era un affare delicato come si ricordava in altre dinastie teatrali, quali i De Filippo o i Rame. Per un decennio sono stato più regista che attore. 

Grazie, Umberto

Luca Micheletti con Umberto Orsini (foto Fabrizio Sansoni).

La musica come è arrivata?
Nel 2013 – alla fine della lunghissima tournée (quasi tre anni) di La resistibile ascesa di Arturo Ui – Marco Bellocchio mi ha visto all’Argentina di Roma: aveva bisogno di attori che sapessero cantare per un cortometraggio basato su Pagliacci, e lì – era Brecht – io cantavo. “Come te la cavi con l’opera?” mi chiese. “Posso provarci”. Cercai un coach, lo trovai in Mario Malagnini, che tuttora mi segue: fu lui a suggerirmi di abbracciare la carriera di baritono sul serio. La musica la conoscevo: da bambino suonicchiavo il pianoforte e a otto anni avevo iniziato con il sassofono nella banda di Travagliato, il paese in provincia di Brescia, dove continuo ad abitare.  

Ah, suona pure…
Avrei preferito il clarinetto, come il mio amico del cuore. Erano finiti e mi assegnarono il sax, ma mi appassionai e anni dopo creai il mio gruppo jazz. 

In che modo riesce adesso a tenere tutto assieme? 
Giocando d’anticipo: ho tempi di studio lunghi, comincio un anno prima. Farei fatica a rinunciare a qualcosa: continuo a definirmi un attore che canta (Verdi li chiamava, appunto, attori) e un regista. L’equilibrio è delicato, comunque il mio calendario sembra darmi ragione.  

Fino a quale data ha impegni?
Al 2027. Con sfide interessanti, come a luglio il debutto nel ruolo di Rodrigo nel Don Carlo alla Royal Opera House di Londra.  

Moglie & collega

Luca Micheletti con la moglie, Elisa Balbo, in “La serva padrona“ (foto Marcello Orselli).

Ha predilezioni?
Amo qualsiasi cosa di Molière, autore-feticcio di “I guitti”: anche lui veniva da compagnie itineranti e alla fine è diventato autore per il re! Il misantropo è uno dei suoi testi simbolo, e persino Don Giovanni ha un precedente “molieriano” importante (la figura, comparsa nel 1632 in una commedia di Tirso de Molina, è stata ripresa da Molière e resa immortale da Mozart, ndr). 

Come sarà questo suo ennesimo Don Giovanni, al Maggio Fiorentino?
Il regista, David Pountney, ambienterà l’opera durante la Primavera di Praga, la lettura sarà più politica. A Sydney David McVicar aveva descritto il libertino come un uomo feroce, un crudele manipolatore. A Londra Kasper Holten l’aveva immaginato come un ragazzo di buona famiglia preso all’amo dal suo spleen. Con Chiara Muti, a Torino, era tornato un predatore. La parola d’ordine di questo personaggio è: imprendibilità. Don Giovanni corre dietro al suo destino, e noi corriamo appresso a lui… È il contrario di Marcello, uno dei ruoli più empatici del repertorio baritonale. È sua la frase chiave della Bohème: “O bella età d’inganni e d’utopie! Si crede, spera, e tutto bello appare!”.

Alla sua giovinezza queste parole non si attagliano. E, a coronamento di questo periodo, ha appena avuto una figlia. Come mai l’avete chiamata Arianna? 
Amavamo questo nome, ha una sua opera di riferimento (l’Arianna a Nasso di Richard Strauss, ndr) e questo è importante (sorride), ed è la sposa di Dioniso, il dio del teatro.

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Sua moglie, Elisa Balbo, è soprano, spesso in tournée. Non si prospetta una situazione facile.
Elisa è già in scena, a pochi mesi dal parto. Sì, sarà da gestire bene, ma – vista l’esperienza che ho alle spalle – non mi spaventa più di tanto… 

iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA