
Luca Mercalli, il noto climatologo torinese, meteorologo, ricercatore, scrittore e personaggio televisivo, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, ha risposto alle nostre domande sulla crisi climatica e su come possiamo, o meglio dobbiamo, cambiare le nostre abitudini. Perché lo stato di salute del nostro pianeta migliori, almeno un po’.
Il meteorologo torinese Luca Mercalli
MATTEO BONINO
Per alcuni aspetti la crisi climatica è anche connessa col mondo del cibo, indiscutibilmente con la produzione intensiva delle derrate alimentari. Luca Mercalli, in che cosa sbagliamo?
«Sbagliamo in tutto. Da cinquant’anni sappiamo che le attività della nostra civiltà sono in conflitto totale con i limiti planetari, cioè quei valori identificati dagli scienziati oltre i quali si mettono a rischio i processi fondamentali di esistenza della vita sulla Terra. Uno dopo l’altro, li stiamo superando tutti».
Quali sono questi limiti planetari?
«I limiti planetari sono, per esempio, la quantità di gas a effetto serra nell’atmosfera, oppure quanto azoto e quanto fosforo immettiamo nel sistema, e questo deriva soprattutto dall’agricoltura. Quanta acqua consumiamo, quanta deforestazione produciamo per coltivare e per allevare, quanta cementificazione generiamo per le città e per l’industria. Quante specie animali e vegetali sterminiamo causando una pesante perdita di biodiversità».
Tutti questi indicatori confermano che siamo in forte crisi…
«Certo, e se non stiamo attenti, continueranno a peggiorare fino ad arrivare al momento nel quale il cambiamento sarà irreversibile. Per il clima lo è già. Ormai l’unica cosa che possiamo fare è solo scegliere di limitarne l’intensità. Ma non possiamo più tornare indietro».
Quando si poteva intervenire?
«Si poteva intervenire trent’anni fa per curare a fondo il pianeta, non si è voluto e adesso siamo in una fase di irreversibilità. Naturalmente il problema non è solo il clima, è tutto collegato, riscaldamento globale, agricoltura e allevamenti intensivi, plastica negli oceani, deforestazione… e così i famosi limiti planetari vengono superati, uno dopo l’altro, nell’indifferenza generale: la prima questione di sopravvivenza dell’umanità è in realtà l’ultima nel dibattito culturale-economico. La crisi ambientale è proprio l’ultima ruota del carro, se ne parla quando non c’è più nient’altro di interessante di cui discutere, ecco allora anche un po’ di ambiente».
Che cosa viene prima?
«L’ambiente è subordinato agli altri aspetti della società. Prima di tutto all’economia, poi ai desideri umani. Non si riesce a far capire che con l’ambiente noi non possiamo negoziare.
L’ambiente è l’esito del funzionamento delle leggi fisiche con cui non si può certo venire a patti.
Le conseguenze delle nostre azioni oltre un certo punto non si possono modificare».
Non c’è interesse su questo tema?
«Mi pare troppo esiguo, per questo dico che stiamo sbagliando tutto. Quel poco di interesse si può riassumere nelle solite paroline che arredano questi discorsi: eco, bio, sostenibile, verde, zero impatto… Quasi sempre si tratta di greenwashing. Un conto è dire “faccio una cosa ecologica”, un conto è farla davvero. Alla fine quello che vale sono i numeri che ci dicono che ci stiamo comportando nel modo opposto. È come un malato che porta al medico i suoi esami i cui valori sono tutti segnati da un asterisco dicendo che sta seguendo la dieta, quando palesemente non la fa».
Noi però vogliamo fare qualcosa senza perdere le speranze.
«Da trentacinque anni racconto lo stato delle cose e cerco di essere il più concreto possibile. Può immaginare il senso di impotenza nel vedere come le previsioni si siano confermate e come la tentazione di perdere le speranze sia forte. Però il pensiero di consegnare un mondo ancora vivibile alle generazioni future è uno sprone fortissimo».
Ci vuole suggerire tre pratiche quotidiane da applicare subito, per contribuire concretamente nel nostro piccolo?
«Partiamo proprio dalla cucina, perché è nelle nostre mani. Già da oggi possiamo fare un passo verso la sostenibilità, non c’è bisogno di aspettare l’Unione Europea per agire…».
Primo
«Mangiare poca carne.
Soprattutto quella bovina, che è la peggiore per l’impatto sul clima, per ridurre i livelli di metano (il secondo gas serra, dopo la CO2) prodotto con l’allevamento intensivo.
Io non sono (ancora) vegetariano, e per questo sono criticato da vegetariani e vegani. Però un conto è mangiare 120 chili di carne all’anno (dati riferiti al consumo medio in Europa e in America), un conto è mangiarne 20 chili. Se tutti riducessimo così drasticamente il nostro consumo da oggi, e variassimo la dieta scegliendo tagli e varietà di carne diversi, sicuramente un cambiamento ci sarebbe. Dobbiamo scegliere carne di grande qualità, proveniente da piccoli allevamenti certificati, pagandola un prezzo corretto perché questo tipo di allevamento sia sostenibile per il pianeta, per l’uomo e per chi lavora».
Secondo
«Non sprecare.
Davvero, però. Non solo come slogan bello da pronunciare. Buttare via il cibo è intollerabile. Bisogna ridurre le porzioni. Le faccio un esempio pratico: ero al ristorante pochi giorni fa e nel tavolo a fianco una signora aveva preso un risotto, dopo una forchettata l’ha mandato via, poi ha ordinato il dolce. Non sono più ammissibili queste cose. Spreco di cibo=emissioni. Dietro ogni piatto c’è una quantità di energia e di consumi che in questo modo vanno sprecati».
Terzo
«Evitare, senza alcun compromesso, i cibi che arrivano dall’altra parte del mondo.
L’Italia è una culla di prodotti che tutto il pianeta ci invida, approfittiamone privilegiando quelli del territorio in cui si vive, per ridurre, anche in una scala minore, lo spostamento e di conseguenza l’inquinamento e per sostenere la rete di produttori locali».
Abbiamo parlato di prodotti gastronomici. E l’acqua?
«L’acqua è un nodo cruciale, da non sottovalutare mai. Il vero problema non è quanta acqua si beve o si usa mentre ci si lava i denti, ma quanta ne serve per l’agricoltura e l’allevamento. Si torna sempre allo stesso punto. Non sono i 5 litri al giorno che uso per vivere, ma i 5000 che servono per irrigare un solo campo. La grande difficoltà nel reperire l’acqua che vediamo in Africa, tra non troppi anni potrebbe interessare anche l’Italia. Ne abbiamo avuto già qualche assaggio. Dopo l’estate siccitosa dell’anno scorso il timore è che si verifichi di nuovo quest’anno. Pensi se dovessimo subire periodi di “mega siccità” (si chiamano così quelle che durano per più anni di seguito). Questo scenario purtroppo non è così lontano dalla realtà».
Che cosa la spaventa di più?
«La stupidità umana. Conosciamo bene queste cose, da trent’anni le ripetiamo in tutte le salse ma non si vuole davvero agire per cambiare la situazione e metterci in salvo».
Vede qualche spiraglio all’orizzonte?
«No, neanche uno. Non perché sono pessimista ma perché guardo i fatti: tutti gli indicatori stanno peggiorando e sento solo parole. Diventerò ottimista quando vedrò finalmente realizzarsi questi propositi. Quando vedrò la riduzione della CO2, quando vedrò la riduzione della cementificazione dei suoli. In Italia cementifichiamo il nostro terreno più buono, un patrimonio inestimabile, per fare capannoni… Mi occupo di queste cose dal 1985 e ho smesso di farmi illusioni. Però non intendo perdere le speranze perché so che l’uomo può fare di più. Proprio a partire dalla tavola, culla di cultura e luogo dove nascono le idee migliori».