gli-chef?-«bianchi,-maschi-e-etero»,-ma-qualcosa-sta-cambiando

Questo articolo è stato realizzato all’interno di un progetto congiunto di Vanity Fair con La Cucina Italiana nato per promuovere una nuova «cucina gentile». E per dire: #Maipiù Monster Chef

Lo chef è un po’ come un calciatore, è «maschio e etero». Anzi, il canone rappresentativo di uno chef è ancora più soffocante, dice Antonio Labriola, che di lavoro fa lo psicologo degli chef: «È maschio, etero e bianco».  

Ma perché le cose sono ancora così? Fino a oggi abbiamo vissuto nell’epoca narrata dall’immaginario dello chef che in cucina detta legge, dello chef autoritario, che tutti chiamano «Maestro» e che può fare una piazzata per una salsa venuta male. L’epoca della cucina da incubo vissuta come un rito di crescita dall’aurea quasi iniziatica, quella della consapevolezza che «è stata dura ma almeno ho imparato a lavorare». 

Ma forse tutto questo sta finendo. È solo un forse, perché in alcune cucine e con alcuni chef poco è cambiato. È un forse perché spesso i camerieri e i cuochi ancora oggi lavorano 15 ore al giorno su due turni, pranzo e cena, e al massimo si fanno un riposino su una panca tra le 16 e le 17. È l’epoca in cui lo stipendio base è di 1.250 € netti al minimo contrattuale, e anche se spesso si prende di più, anche il doppio negli stellati, altrettanto spesso il contratto non c’è o non viene applicato in modo corretto. 

Camerieri e cuochi escono dal lavoro all’una di notte tutte le sere, lavorano i weekend, fanno una vita isolata dal resto della società, si sentono alienati, stressati e – semplicemente – non ne possono più. La narrazione anche in questo caso è la solita: «Restando a casa durante il lockdown camerieri e ragazzi di cucina si sono accorti che la vita esiste, che è bello passare le serate a casa con mogli, fidanzate, figli, amici». 

Secondo i dati Fipe con il Covid dal settore se ne sono andati 200mila lavoratori e non sono più tornati. Vanno a lavorare in settori affini, al supermercato, alla logistica. «Dicono che lavorare da Amazon sia un inferno, ma per chi è stato in cucina è una passeggiata: assunzione regolare e otto ore di lavoro per un cuoco non sono niente», prosegue Antonio Labriola

Cinque anni fa Antonio e la moglie Sonia Rotondo, entrambi psicologi con formazione anche nel mondo del food (Antonio è docente alla Food&Wine Acedamy del Gambero Rosso), hanno fondato Mind-a-place, un progetto che si occupa di consulenza food and beverage a 360 grandi, compreso l’aspetto di supporto psicologico: «La ristorazione di per sé ha un alto carico di stress, per l’alto numero di ore di lavoro e l’intensità dei ritmi. Facciamo consulenza diversificata, per migliorare gli ambienti di lavoro o in aiuto a chi non ce la fa più». 

Cosa succede nelle cucine?
«Tante cose, è un lavoro complesso e faticoso, figlio di un modo di pensare che in alcuni ambiti sta cambiando, ma secondo il quale vale ancora l’assunto che per fare il cuoco devi sapere sopportare la fatica, e non solo. Si giustificano soprusi, linguaggio vessatorio e in genere un clima molto pesante». 

La cucina è un luogo inclusivo?
«Parliamo di razzismo: in cucina c’è un’alta presenza di ragazzi extracomunitari che entrano facendo i lavapiatti, spesso hanno molta voglia di imparare e possono fare carriera, ma il razzismo c’è, anche verso le persone del sud Italia. Alla fine basta pensare: quanti chef di colore vedi nelle cucine? Quanti giudici di colore ci sono nelle trasmissioni televisive? Perché si sente pochissimo parlare di chef omosessuali? Il fatto è che il canone dello chef resta solo uno: maschio, bianco e etero».