a-milano-noi-trentenni-abbiamo l’ossessione-del-mercato immobiliare

Non riesco a ricordare un tempo in cui le mie conversazioni non avessero niente a che fare col mercato immobiliare. Eppure di qualcosa avremo pure parlato, io e tutti quanti, prima che le case soppiantassero qualsiasi altro argomento.

Ora non riusciamo ad arrivare in fondo a una cena senza aver commentato almeno un paio di annunci di Idealista, lamentandoci contestualmente del prezzo al metro quadro nell’area urbana di Milano e della faccia di tolla di chi vende a mezzo milione di euro trilocali seminterrati con bocche di lupo al posto delle finestre e pavimenti di gres porcellanato al posto di qualsiasi altra cosa più accettabile.

«Che cosa ci vuole a mettere un parquet», commentiamo stizziti, sapendo in cuor nostro che tutto il parquet che potremmo permetterci ammonta a quattro listoni di pessimo rovere. Con gli occhi pieni di lacrime e di giudizio scorriamo queste immagini di camere da letto meste e dolosamente brutte che evocano nella nostra mente epoche ostili che non abbiamo vissuto – le parole “grande” e “depressione” sono le prime a saltare in mente, seguite da “cortina di ferro” e “secoli bui”. Le pareti sono spesso marcate da stencil leziosi di messaggi insolenti: live, love, laugh. Non c’è niente da ridere, non c’è niente da amare, vivere mi risulta difficile senza il mezzo milione che mi stai chiedendo per questo cesso da rinnovare.

Dipendenza dagli annunci

Eppure non riesco a smettere. Ogni mattina ricevo via mail due liste di annunci immobiliari, che corrispondono a due diverse impostazioni di criteri di ricerca e a due diversi gradi di scollamento dalla realtà. La prima mi mostra case milionarie di almeno 300 metri quadrati all’interno della seconda circonvallazione di Milano (scollamento massimo). Queste di solito vantano rubinetterie molto più belle e preziose dei miei gioielli migliori e locali lavanderia nettamente più grandi del mio attuale salotto. Se stringi un po’ gli occhi e ti concentri, puoi vedere il punto esatto del parquet su cui l’ultimo collaboratore domestico ha fatto cadere una zuppiera Ginori, poco prima di essere licenziato dalla padrona di casa. Con un piccolo sforzo in più, nei rari giorni di aria pulita, puoi sentire anche l’odore di Chanel N°5 che impregna la boiserie. 

La seconda lista di annunci è quella che dovrebbe rispettare dei parametri di verosimiglianza. Ho disegnato sulla mappa un’area più ampia che si estende ai limiti della civiltà (la terza circonvallazione), massimo 100 metri quadri, massimo 500mila euro (che è un budget verosimile per qualcuno, ma comunque non per me. Livello di scollamento: medio-alto).

Le zone da puntare sembrerebbero essere quelle con gli acronimi per nome: per NoLo (nord di Loreto), pare sia già troppo tardi («dovevate comprare 10 anni fa!» mi ha detto un amico più grande una sera, compiaciuto del suo trilocale a piazzale Morbegno. Dieci anni fa avevo 26 euro in banca e dormivo in un letto singolo col mio fidanzato dell’epoca, investire in immobili non era esattamente nel mio raggio d’azione, caro amico del cazzo).

Ora pare sia il momento di NoMa, a nord della Martesana, che è a sua volta ancora più a nord di Loreto – NoNoLo? – e vanta una densa popolazione di nutrie e zanzare, e di SuPra, a sud della Fondazione Prada, a cui mi sentirei di rispondere solo andateci voi. Sarà un caso che la Miuccia se ne sta ben salda in Bianca di Savoia con i citofoni d’ottone?

L’opzione OnlyFans

E così ogni giorno, dopo aver consumato la mia dose quotidiana di pornografia (ricerca numero 1), passo in rassegna decine di case semi-accessibili (di nuovo, accessibili a qualcuno che non sono io) cercando di calcolare quante foto dei miei piedi potrei mandare ai feticisti dell’internet per potermi permettere un mutuo che non rischi di vivere più a lungo di me. Quando un’amica mi ha detto che guadagna settemila euro al mese su OnlyFans mi sono fatta un piccolo esame di coscienza: ho ancora un paio d’anni buoni in cui la gente potrebbe aver voglia di vedermi nuda senza dover reprimere i conati, o adesso o mai più. Sono troppo povera per avere dei principi.

Poi apro l’ennesimo annuncio completo di cucina impiallacciata, che come l’abisso guarda dentro di me nella fredda luce del mattino di un piano terra monoesposto, e penso che dopotutto non ne valga la pena, la soft-prostituzione va riservata per obiettivi più alti, e quelli restano ancora inaccessibili alle sex worker amatoriali. 

Una strana ossessione

Non so cosa abbia originato questa ossessione, non so se siamo geneticamente programmati per cominciare a desiderare appartamenti di proprietà a 30 anni, o se l’esposizione quotidiana a profili Instagram di gente più ricca di noi ci ha semplicemente fuso il cervello (ci prova Normalize Normal Homes su Instagram a ripristinare un’estetica modesta di case qualunque, fa ridere ma anche riflettere).

Forse stiamo solo cominciando a fare i conti con l’idea che la vera scelta da ricchi sia vivere in affitto tutta la vita, che almeno alla fine di un mutuo di duecento anni rimarrà qualcosa di concreto (sempre che Milano non finisca sotto il livello del mare e le nostre proprietà spazzate via dalle onde e ripopolate dai saraghi) e rinfacciamo ai nostri genitori di averci permesso di seguire percorsi umanistici invece di indirizzarci verso l’arte idraulica, fatto sta che a un certo punto i miei amici hanno cominciato a rogitare – un verbo che mi rimane tanto cacofonico quanto misterioso – e io contestualmente ho preso l’abitudine di fermarmi davanti alle agenzie immobiliari con gli occhi languidi di un orfanello vittoriano. 

Sogno case con la terrazza e parquet antichi tirati a lucido, cabine armadio, doppi bagni, stanze degli ospiti. Li sogno in senso letterale, e poi mi sveglio divorata dai sensi di colpa per il mio adorabile bilocale, che non ha assolutamente niente che non vada (ha in realtà diverse cose che non vanno, prima fra tutte una doccia degli anni Sessanta col miscelatore rotto che prevede una sola temperatura dell’acqua, troppo calda in estate, non abbastanza in inverno. Abbiamo circa sei giorni all’anno in cui facciamo docce gradevoli e adeguate alle condizioni atmosferiche, sono gli stessi in cui metto il trench). Giusto il tempo di vergognarmi del mio privilegio e 12 nuovi appartamenti malilluminati sono già nella mia casella di posta ad aspettarmi con i loro bagni ciechi e i loro infissi di alluminio anodizzato.

Generazione pezzente e pretenziosa

Siamo la generazione più pezzente di tutte, questo ormai è risaputo. Ci sono persino i meme (“My parents at 30”) in cui una coppia di boomer a 30 anni compra casa e il figlio, un trentenne di adesso, guarda una bottiglia di latte e un filone di pane e dichiara di non potersi mai più riprendere da quell’investimento. Ma siamo pezzenti e pretenziosi, perché siamo pur sempre cresciuti in case borghesi con i tappeti persiani e i sevizi buoni. I nostri genitori hanno l’armadio della biancheria per la casa, noi abbiamo un unico armadio per tutto – vestiti, scarpe, cibo – e alterniamo due set di asciugamani secchi come il Sahara in una rotazione infinita tra lo stendino – i terrazzi non ce li abbiamo – e il bagno.

Scegliamo dunque di compensare la frustrazione con acquisti immorali e privi di senso: candele di Dyptique da 50 euro che profumano di responsabilità, lampade Artemide che non possono mancare nei nostri piccoli appartamenti velleitari e che posizioniamo accuratamente alle nostre spalle durante le videochiamate di lavoro, lenzuola di cotone organico che nostra madre avrebbe usato come tovaglia nelle occasioni speciali e che invece noi adagiamo sui nostri lettacci dell’Ikea. E poi c’è lui, l’oggetto simbolo della nostra condizione, la panacea di tutti i mali, il Rolex dei millennial: il Dyson. Un aspirapolvere da diverse centinaia di euro che è ormai oggetto del desiderio per qualsiasi neo-adulto di media estrazione sociale che non ha neanche i soldi per piangere ma pretende di aspirare le briciole con questo piccolo Apollo 13. Esiste forse qualcosa di più deprimente?

Farsi desiderare

Intanto la provincia si insinua nelle nostre menti come un virus. La piccola città da cui siamo scappati, di cui abbiamo amato lamentarci per tutti questi anni sentendoci persone di mondo che avevano conquistato la metropoli, improvvisamente ci sembra desiderabile, avvolta com’è da un alone rosato di accessibilità. Qui la palazzina indipendente in centro storico costa come il seminterrato al ponte della Ghisolfa, e la prospettiva di andare a piedi ovunque o di non dover mai più mangiare un poké nella nostra vita comincia a farci gola. 

Milano invece è quel fidanzato bello ma un po’ stronzo che poi a guardarlo bene non è nemmeno così bello, ma continua a emanare un fascino oscuro. Milano non ci vuole e forse è per questo che la desideriamo. La mia proposta a questo punto è di desiderarla un po’ meno, di fargliela nasare ma non dargliela. C’è gente come me che sta aspettando pazientemente che il mercato immobiliare crolli, voi però dovete smetterla di comprarvi queste benedette case. Non fatela sentire speciale, Milano, ridete in faccia all’agente immobiliare che vi chiede tutti quei soldi per un appartamento molto inferiore alle vostre aspettative, buttategli lì due spicci e ditegli di farseli bastare. Se fai un po’ la difficile finisce che lo stronzetto con le occhiaie e l’aria compassata poi ti cerca lui, no? Invito tutti a interrompere il circolo vizioso, non accettate più questo sopruso – vi vedo, voi genitori di bocconiani, che comprate case a profusione senza neanche chiedere lo sconto – cosicché io possa esaudire il mio sogno borghese. Grazie. 

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